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Articoli
sul nuovo Umanesimo
Il modello economico dei paesi occidentali ha iniziato a mostrare i propri limiti alla fine del XX
secolo, nel momento in cui l'uscita di scena del comunismo dal teatro mondiale coincideva con il massimo fulgore del capitalismo. Molti sono concordi
nel ritenere che ora è però necessario porre rimedio agli squilibri che il modello capitalista ha inevitabilmente portato con sé insieme al
benessere. Qui viene proposto un nuovo
modello di economia, di gestione e di vita chiamato Nuovo Umanesimo: il
capitalismo umano con una nuova etica del profitto, non frutto della speculazione contrattuale, ma generato dalla felicità dell’uomo, vero e proprio
capitale intellettuale dell’impresa e della società.
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L'uomo e il suo progetto di natura |
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Una novità interessante della psicologia è quella che mette al centro della sua indagine l’uomo, non
tanto come oggetto di speculazione scientifica, ma come evidenza dell’esperienza che può avere di se stesso. Infatti, è soltanto dopo aver trovato il
suo originario “Progetto di Natura”, che l’uomo riesce ad operare in modo eccellente sia per il raggiungimento della propria felicità, che per
migliorare le condizioni di vita delle persone e dell’ambiente con cui interagisce. Quest’uomo, finalmente riconciliato con la sua natura più
autentica e originaria, fonda la sua scommessa di vita e di riuscita sul fatto di essere consapevole delle responsabilità che ha verso se stesso,
verso le persone della sua famiglia e verso l’ambiente economico e sociale in cui vive. Ma è anche consapevole delle difficoltà che dovrà incontrare
per realizzare i suoi sogni e della volontà e della determinazione con la quale deve scegliere in ogni momento di mantenersi fedele ad essi. Ebbene,
la novità intorno a cui si articola questo nuovo progetto di vita risiede tutta nel far sì che le persone riescano ad esprimere il massimo delle loro
capacità, in modo che ciascuna di esse abbia l’opportunità di divenire una risorsa e un’occasione di arricchimento culturale e professionale per sé e
per gli altri. Per raggiungere questo obiettivo è necessario avere il coraggio di mettere in questione tutti quei condizionamenti che ci vengono
tramandati da un’idea di famiglia intesa come equivalente generale dei valori di gruppo, di popolo e di gregge; dalla scuola e dai suoi arcaismi
educativi e da una formazione religiosa troppo legata al senso di colpa. Condizionamenti culturali, sociali e religiosi che costringono l’individuo
ad operare scelte radicali: o aggregarsi al conformismo dell’opinione comune, o inventarsi un percorso di vita singolare e innovativo rispetto ai
modelli imposti dalle genealogie sociali, economiche e professionali. Una consapevolezza che, però, esige anche la libertà di scegliere il proprio
destino: o all’insegna dell’audacia, o all’insegna della rinuncia. Ma questa scelta non può che essere fatta, per definizione, in solitudine e, come
troppo spesso avviene, la solitudine ci fa paura e ci fa paura perché siamo stati educati ad essere estranei a noi stessi. Occorre, quindi, che
l’individuo capisca anzitutto chi è e dove vuole andare per poter realizzare i suoi sogni. Affinché ciò sia possibile è necessario che ogni uomo
impari a conoscersi. Paradossalmente, però, tanto più forte e protettiva è la società che lo circonda quanto è più difficile che egli trovi se
stesso. E questo è potuto accadere perché la società e la famiglia oggi non seguono più il disegno umanistico e rinascimentale, ma sono stati
trasformati da uno stile di vita che attraverso i simboli del successo sancisce l’importanza e l’influenza dell’avere sull’essere. Spesso è la
famiglia a condizionare l’avvenire dei figli che si sono abituati a scegliere in nome e per conto di un nuovo totalitarismo: il consumismo. E’ dunque
urgente liberare l’identità dell’individuo dai condizionamenti, ma per fare questo è necessario che egli scelga, in perfetta coscienza, un proprio
“percorso di autenticazione” che lo porti a trovare dentro se stesso la via più funzionale per risolvere le problematiche della sua vita e del luogo
in cui essa si svolge. In conclusione l’invito è quello di avere il coraggio di cercare il proprio “Progetto di Natura”, perché solo così la storia
personale e il romanzo familiare di ciascuno potrà approdare ad un Nuovo Rinascimento fatto di arte, di cultura e di industria intesi come effetti
del tempo e del fare.
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Il dono di famiglia |
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La felicità dell’individuo non può prescindere dall’amore che è soprattutto un dono. Per elaborare una
nozione di famiglia non più ritenuta l’equivalente generale dei valori di gruppo, di popolo e di gregge, ma traccia e condizione di un disegno
rinascimentale e industriale, i genitori, con il loro statuto di autori, dovrebbero essere individui capaci di donare ai figli, con generosità, un
capitale spirituale contraddistinto dall’assenza di qualsivoglia aspettativa di reversibilità. Riuscire a capire il valore di un dono che non esige
la reciprocità è la cosa più potente che esista. Ne è un esempio la Chiesa dove tutto è iniziato con un grande dono d’amore che, simbolicamente, si
perpetua nei millenni. E questo dono si chiama anche libertà.
In principio, dunque, la famiglia nasce da una coppia dove il progetto di natura di ciascuno dei due individui è potenziato nel rispetto della
relazione con l’altro. Il passo successivo è il figlio, a cui i genitori devono saper donare, generosamente, quel capitale materiale e intellettuale
che non comprometta il loro originario progetto di natura. E’ qui che interviene una duplice responsabilità per i genitori: la prima significa saper
individuare con onestà intellettuale quello che si ha in più e che si può donare con gioia, senza percepire alcuna rinuncia; la seconda, ancor più
intellettuale, riguarda la consapevolezza dei bisogni materiali e spirituali che favoriscono il percorso di natura dei propri figli. Solo allora il
padre e la madre sono felici di donare, perché il dono fatto con generosità e senza aspettativa di reciprocità li rende autori responsabili della
felicità dei figli. Il dono, quindi, assume il suo statuto di valore spirituale non perché risulta conveniente per chi lo fa, ma perché è utile a chi
lo riceve. Questa procedura, inoltre, introduce una nuova idea di ringraziamento: essendo escluso a priori ogni obbligo di debito morale, l’individuo
ha una tale valutazione del dono ricevuto che, in tutta libertà, è indotto allo stesso comportamento verso il suo prossimo.
Se, invece, prendiamo in considerazione la famiglia tradizionale c’è da dire che il terreno mitologico su cui si è sviluppata la famiglia è sempre
stato quello della domesticità dove il figlio viene ancora considerato una proprietà da proteggere. E questo deriva dal fatto che, in origine, i
figli servivano alla famiglia per diventare più forte nelle varie genealogie sociali e spirituali che hanno strutturato la nostra collettività nei
secoli. In altre parole: i genitori ancora oggi si rappresentano, quasi inconsciamente, padroni e custodi dei loro figli che, di conseguenza, sono
considerati alla stessa stregua di una ricchezza di proprietà da far valere negli scambi e nelle gerarchie sociali. E il figlio è costretto ad
adeguarsi a questa mitologia sociale per continuare a perpetuare l’appartenenza della parentela ad un sistema che sull’egoismo fonda la propria
identità. E le proprie fortune. Orbene, l’obiezione che si può rivolgere a questa impostazione arcaica e pagana della famiglia è che se il padre e la
madre, presi nel loro nuovo statuto rinascimentale e industriale, vogliono davvero la felicità dei figli devono imparare a donare con generosità
senza aspettarsi reciprocità dai loro atti finalmente liberi da condizionamenti ideologici. Se il padre e la madre sono profondamente convinti del
rispetto dovuto ai figli, non come sudditi da governare, ma come individui con un proprio singolare progetto di natura, essi si devono aspettare solo
un generico impegno all’utilizzo dei talenti donati. Ma anche la felicità di assistere alla realizzazione di itinerari di qualità grazie ai loro doni
che, tra l’altro, hanno la caratteristica di essere assolutamente gratuiti. In questo contesto il figlio assume lo statuto di principe industriale,
ovvero di individuo libero di realizzare il proprio progetto di natura diventando imprenditore di se stesso.
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Il capitalismo umano |
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Attualmente ci sono tre modi per definire quella che nel Rinascimento, soprattutto con Leonardo Da Vinci,
è stata chiamata bottega: l'impresa, l'industria e l'azienda. Nel Rinascimento la bottega venne chiamata anche casa di produzione perché era il
dispositivo artistico e culturale, ma anche economico e finanziario, della città. E la bottega, la casa e la città si basavano sulla fusione tra il
manuale e l’intellettuale, ovvero sul superamento di quella millenaria divisione che da Platone in poi separava le arti meccaniche da quelle
liberali. Di conseguenza la bottega, la casa e la città poggiavano sul tempo, sulla cultura e sul fare: tre istanze intellettuali che fino a pochi
anni fa, nell'Italia serva dell'ideologia illuministico-romantica, sono state sconfessate per giustificare la supremazia del capitale sulle relazioni
sociali, attraverso la gestione sapiente del potere finalizzata allo sfruttamento delle risorse. E, com'è noto, se si basano i rapporti sociali e
industriali sul principio del potere contrattuale il conflitto è continuo in una società come la nostra dove il profitto è visto come premio per lo
sfruttamento delle risorse: finanziarie, tecnologiche ma, purtroppo, anche umane.
In questo contesto assolutamente antirinascimentale, oggi, si avanza l'idea che un'impresa, non più basata sul potere contrattuale, ma sulla
solidarietà umana, sia un'impresa più profittevole se fondata sull’onestà intellettuale come dispositivo di accoglimento, e sul dono come dispositivo
di riuscita. Per fare questo occorre molta fiducia nel bene e nel nostro prossimo, base e condizione di quel dono d'amore, di quel dare, capace di
rendere felice l'uomo. Purtroppo il dono d'amore, soprattutto in un'economia egemonizzata dal consumismo, è una potenza che ancora non viene
apprezzata perché apparentemente non rappresentabile in un oggetto utile e, soprattutto, non valutata sulla base del potere contrattuale, ma sulla
fede nella riuscita. Invece, quasi paradossalmente, il successo dell’impresa passa proprio attraverso la felicità dell’individuo realizzata
all’interno di un gruppo di lavoro, il cui modello di gestione poggi sul dono e non sul profitto. E questo perché una cosa donata con amore non
contempla la perdita, ma il guadagno: con il dono, infatti, si instaura un patto fondato sulla valorizzazione del dono stesso, sia da parte di chi lo
fa che di chi lo riceve. Il sistema attuale si basa sull'idea che ci si deve difendere dal potere contrattuale altrui: quello del Capo contro il
sottoposto e quello del sottoposto contro il Capo, dove il più forte non sempre è il Capo. Tutti allora sfruttano tutti, per un presunto senso di
difesa, in quanto si ritiene che ognuno adotti sistematicamente le tutele e le astuzie a sua disposizione per sfuggire o contrastare l’altro. Il
circolo vizioso instaura, così, una pericolosa escalation che focalizza l’interesse dei contendenti più sulla valorizzazione del proprio potere
contrattuale che sull’efficienza della produttività aziendale. Si capisce che in queste condizioni il costo aziendale, ma anche sociale, del
controllo esercitato sull’efficienza del gruppo di lavoro è enorme. Ed è enorme anche lo spreco. Una volta instaurata l'onestà intellettuale, nel
nuovo dispositivo di accoglimento e di riuscita si sviluppa, invece, la fiducia come risultato della cooperazione e, quindi, il profitto si
determina, quasi naturalmente, come risultato del mancato impiego di risorse nel controllare l’efficienza del gruppo.
Ma cosa comporta per un'impresa trasformare le relazioni sociali basate sul principio del potere contrattuale in quelle fondate sulla cooperazione?
Anzitutto che l'imprenditore inizi a considerare il capitale e il profitto non più come fine di arricchimento personale ma come mezzo per rendere
felici le persone, tra le quali la prima è lui stesso. Allora si capisce che il capitale non è un potere, ma una risorsa, e non ha più potere chi più
ne detiene, ma solo più responsabilità nell’impiego di un talento intellettuale da gestire con saggezza nelle relazioni sociali. La capacità di saper
donare con amore questo talento comporta la felicità di tutte le persone che partecipano alla riuscita dell'impresa. Ebbene, se la gestione
dell'impresa viene fatta così, ogni collaboratore ha la chance di divenire imprenditore di se stesso in quanto stimolato a massimizzare le proprie
aspirazioni e quindi a sviluppare un'impresa di felicità. In altri termini: l'imprenditore deve saper divenire quell'intellettuale in grado di
richiedere ai suoi manager non il profitto, ma la felicità di tutte le persone che lavorano nell'impresa. Questa felicità si concretizza grazie ad un
modello di gestione che prevede il tutor, la cui responsabilità è quella di insegnare all'individuo a valorizzare la cultura del dono e a non
sprecarla. Qui risiede anche il concetto di Botteg@, o grappolo di botteghe, per l’ottimizzazione delle risorse e,
oggi, la risorsa fondamentale di un'impresa sta nel saper dirigere un'equipe composta da persone che, ciascuna a suo modo, sappiano esprimere la
propria eccellenza professionale ed umana, in un contesto di felicità di gruppo. In estrema sintesi: se l'imprenditore non si preoccupa di
raggiungere il profitto, ma si prende cura della felicità dei suoi collaboratori egli persegue un bilancio umano e societario che solo
apparentemente, e nel breve periodo, può risultare penalizzante, in realtà risulterà vincente in quanto ottenuto con un processo lavorativo fatto con
amore individuale. Questo è un investimento inaudito, perché l'attenzione che si dedica alla felicità dell'uomo è il miglior patrimonio dell'impresa
che, oltre ad avere la responsabilità di saper valorizzare la propria missione, deve imparare a divenire capitale intellettuale e indice della
prosperità sociale.
Questo modello di economia, di gestione e di vita si chiama Umanismo: il capitalismo umano con una nuova etica del profitto, non frutto della
speculazione contrattuale, ma generato dalla felicità dell’uomo, vero e proprio capitale intellettuale dell’impresa e della società. Solo così si
giustifica il profitto come risorsa indispensabile per il rinnovamento della stessa felicità dell’individuo.
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Il tutor |
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Fin da quando veniamo alla luce, alla base della nostra formazione c’è la famiglia e i genitori sono i
nostri primi tutor. Successivamente, durante la formazione scolastica e universitaria, abbiamo altri tutor, maestri e professori che ci trasmettono
le informazioni necessarie per relazionarci positivamente con la società in cui viviamo. Da zero fino al compimento degli studi, quindi, l’individuo
impara a decodificare i propri bisogni e a comprendere le esperienze sociali grazie ai suoi tutor che fungono da punti di riferimento per affrontare
il proprio percorso umano e professionale.
Nel mondo del lavoro, invece, questo dispositivo di orientamento cambia radicalmente. Il giovane che affronta il primo lavoro ha quasi l’impressione
di essere rifiutato dal sistema. Non trova più un tutor che lo assista nelle scelte ma, al contrario, un ambiente ostile e selettivo che privilegia
la scaltrezza e l’egoismo. In seguito poi l’individuo si trova a combattere contro gerarchie sociali dove le persone sono in perenne competizione tra
loro per migliorare il proprio status economico e sociale, incuranti del prossimo. Anzi, il modello sociale sembra premiare proprio chi riesce a
gestire abilmente lo “sfruttamento” delle risorse altrui. Quando emerge con maggior forza la discrepanza tra i buoni principi che si sono imparati a
scuola e la cruda realtà, sopraggiunge, allora, una cocente delusione da cui deriva, purtroppo, il risultato più ovvio: l’azienda è un ambiente senza
amore.
Il modello capitalistico, quello che dà il potere agli azionisti e vede l’uomo come un consumatore, concepisce come mezzo dell’attività produttiva lo
sfruttamento delle risorse umane alla pari del capitale e della tecnologia. Al contrario, invece, bisogna che le risorse umane diventino il fine e
non un mezzo per la produzione del reddito. Ecco allora l’uomo inteso come vero e proprio capitale intellettuale dell’impresa e della società: un
capitale intellettuale che giustifica il profitto in quanto reiteratore della stessa felicità dell’individuo. In altri termini: la produzione del
reddito sarebbe etica in quanto il profitto diventerebbe la garanzia di continuità dinamica della felicità dell’uomo.
La domanda che occorre porsi allora è questa: perché anche nel mondo del lavoro non è previsto un tutor che, con il suo servizio intellettuale, guidi
e indirizzi l’individuo verso un percorso di realizzazione professionale e umana, base della felicità nella vita? Sarebbe questa la condizione
sufficiente per sentirci amati nell’impresa e nella società come lo siamo nella famiglia e nella scuola? Tutto questo potrebbe essere un sogno
realizzabile se avessimo il coraggio di pensare che l’azienda è al servizio dell’uomo e non viceversa. Se il capoufficio o il manager, invece del
budget, avessero come obiettivo di tutor la massimizzazione del capitale intellettuale dell’impresa, si attiverebbe un effetto a catena talmente
efficace da produrre maggior reddito come conseguenza dello stato di maggior felicità di tutti i collaboratori.
Ma quali sono gli strumenti adatti per raggiungere la felicità in un ambiente di lavoro? Innanzitutto il tutor dovrebbe instaurare con ciascun
collaboratore un percorso formativo, dunque evolutivo, assolutamente personale. Egli, in definitiva, dovrebbe aiutare a fare le scelte migliori
utilizzando l’azienda come se fosse a disposizione del collaboratore, e non viceversa. Se le imprese e le istituzioni realizzassero questa vera
rivoluzione copernicana succederebbe una cosa meravigliosa: i loro collaboratori si troverebbero ad interloquire con dei tutor e non con dei
competitor e diverrebbero efficientissimi perché non si sentirebbero sfruttati, non si sentirebbero un mezzo, ma i principali beneficiari del
capitale culturale dell’impresa. Per fare questo occorre molta fiducia nel bene e nel nostro prossimo, occorre anzitutto che i manager e gli
imprenditori sappiano rinunciare alla loro vecchia concezione del potere e diventare loro stessi tutor. Non ci sarebbe neanche bisogno di cambiare la
struttura organizzativa dell’impresa, basterebbe cambiarne le finalità con un nuovo spirito di gestione che anteponesse la felicità dell’uomo alla
fredda sequenza di numeri/profitti/denari. Così potremmo realizzare meglio i sogni della nostra vita, quelli nati tra le mura domestiche e sviluppati
sui banchi di scuola. Ci sarebbe sicuramente maggior felicità, più rispetto, più onestà intellettuale e più ricchezza. |
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Testi tratti dagli articoli di Giacomo Bucci ed Enrico Ratti pubblicati con la collaborazione di Mariagloria Campi e
Maurizio Zoppi sul settimanale La Cronaca di Mantova nella rubrica “La stanza dei sogni” (19 marzo, 18 giugno, 9 luglio e 23 luglio 2004)
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